Da REPUBBLICA.....
L’artista, che ha recentemente festeggiato trent’anni di carriera, si racconta a XL e svela i suoi progetti futuri
di Daniele Zennaro - 17 settembre 2013
Quando si parla di hip hop in Italia, è impossibile non fare il nome di Ice One. Torinese cresciuto a Roma vedendo nascere le prime aggregazioni di appassionati del genere agli inizi degli anni 80, e diventando protagonista della scena italiana ben prima di molti altri.
Parliamo di vecchia scuola hip hop: tu hai visto nascere la scena in Italia. A Roma c’era un bel movimento molto prima dei tempi delle Posse, nonostante molti non se ne ricordino. Ce ne parli?
«La scena romana iniziò a formarsi intorno al 1982, grazie alla breakdance. Arrivò come moda, anche se io e altri ragazzi avevamo già percepito la cosa grazie a quei trenta secondi in Flashdance dove abbiamo visto per la prima volta quel tipo di danza e quel tipo di sound funk contenuto nella colonna sonora. Nel giro di un anno e mezzo, intorno al 1983-1984, si era già formato un bel movimento che andò a costituire lo zoccolo duro, i più radicati, ossia quelli che occuparono Galleria Colonna ispirandosi agli americani. Posso citare personaggi come i primi Urban Force (non quelli attuali, che si richiamano ai precedenti) e c’ero anche io. Era tutto fondato sulla breakdance, ma il rap iniziava a comparire. Il primo a rappare a Roma fu Shark, all’interno di una scena incredibile, di cui facevamo parte anche noi. C’era una serata al Piper, non ricordo se il giovedì o il venerdì, strapiena di gente che seguiva questa musica, un fenomeno molto simile a ora…».
Questo già nell’82 o un po’ dopo?
«Più che altro nell’83-84. Nell’82 c’erano stati i prodromi, dopo questo fenomeno raggiunse una grande punta. Poi, come spesso succede dopo che si esaurisce un’ondata, é iniziato un grande down, dove è rimasto lo zoccolo duro del movimento. In quegli anni scimmiottavamo gli americani, solo in seguito la nostra proposta musicale si fece più personale. Già Shark aveva iniziato a rappare in italiano, anziché in inglese, o quantomeno ci provava. Parlo però solo di Roma, un primato italiano è difficile da ricostruire. È difficile parlare di una “discografia”, tanta roba è rimasta solo in cassetta e oggi la conosce solo chi possiede quei vecchi tapes. La scena si è consolidata nella sua solitudine: era rimasto un piccolo gruppo di persone, ma che ormai sentivano l’hip hop come una parte importante della propria vita».
Quindi intorno all’ ’86-’87 …
«Ma nemmeno… Ricordiamoci poi che all’epoca c’era anche la scena dei club, in cui l’hip hop era sopravvissuto. Era però più veloce, parliamo di pezzi che arrivavano da 100bpm fino a 125 bpm, quindi molto ballabili, dance. Anche il rap più conscious era vicino al dancefloor. Con il periodo delle Posse si perse il collegamento tra le due realtà, perchè poi il club diventò un posto da non frequentare. Io sono sempre stato contrario a questa logica: parlare dentro a un centro sociale quando hai una consapevolezza politica di un certo tipo significa discutere di un messaggio con quelli che già ne condividono il pensiero, mentre provare a divulgarlo all’esterno è un altro paio di maniche. Era un’operazione più difficile e più utopica, ma qualitativamente più alta: si provava ad andare da un ragazzo che non conosceva quel tipo di musica e a vedere se poteva esserne interessato. Chiaramente in quegli anni l’hip hop era legato all’immaginario dei neri che uscivano dal ghetto e volevano diventare ricchi. Anche i Public Enemy stessi, all’interno dei loro testi politicamente impegnati, dicevano molte cose politically incorrect: c’è un testo famoso di Chuck D in cui dice che le donne stavano sul suo membro come le api sul miele, e in quello stesso testo cita Farrakhan. C’erano delle contraddizioni all’epoca, anche se le Posse presero spunto da gruppi politicizzati come loro».
Cercando di inserire quei messaggi all’intero delle lotte politiche che portavano avanti gli spazi occupati…
«Esatto. Quello portò però a un abbassamento della qualità, in quanto le Posse non avevano un gusto legato al rap o all’hip hop. Quindi si è creata questa sfaldatura tra quello che era la cultura generale e il suo mezzo di espressione, cioè il rap. Il fatto che comunque il risultato in Italia sia stato eccezionale non nega questo fatto. Lo stesso movimento hip hop di quegli anni è composto da tante linee spezzate, alcune di queste parallele, altre adiacenti. Sono vicine ma nello stesso tempo vengono da realtà diverse. In passato dissi in un’intervista che l’hip hop in italia è andato avanti così: la generazione che veniva dopo uccideva quella prima, e così è anche oggi».
Secondo te quali sono le personalità in ambito romano, ma anche italiano in generale, che hanno contribuito a far nascere il movimento e di cui si parla di meno?
«Uno dei grandi “caduti” dell’hip hop è Crash Kid (Massimo Colonna). È stato uno dei primissimi a ballare la breakdance, ha ballato in tutto il mondo e per questo è conosciuto a livello internazionale, sebbene molti in Italia si siano dimenticati di lui. È stato, assieme al torinese Next One (Maurizio Cannavò), una delle due punte di diamante della breakdance italiana. Per il resto diciamo che praticamente tutti i personaggi fondamentali hanno ottenuto il successo meritato. La scena romana in particolare, nonostante le linee spezzate di cui parlavo prima, è sempre stata molto longeva. Tutto quello che è nato qui ha sempre avuto un grande seguito. Gruppi come Gente De Borgata, Cor Veleno e Colle Der Fomento vengono da un territorio comune e sono sempre stati sotto i riflettori, pur rimanendo un fenomeno underground.
Gli Assalti Frontali hanno iniziato ad avere una connotazione più hip hop molto dopo la loro formazione, in seguito al mio incontro con loro. Lavorare insieme su Banditi è stato utile per entrambi: mi ha aiutato ad avvicinarmi a un ambiente che già conoscevo, ma non dal punto di vista “discografico”, e loro ebbero la possibilità di avvicinarsi a uno stile più corretto ma soprattutto più efficace. Sottolineo che non sono mai stato d’accordo con quelli che dividono l’hip hop in discipline: è un genere che ti coinvolge 24 ore su 24, fatto di motivazione e di amore. Loro questo hanno acquistato: l’amore per un’espressione più efficace, cosa che si evince dai pezzi nuovi, metricalmente migliori. Basti pensare che l’unico pezzo degli Onda Rossa Posse che suonavo era Batti il tuo tempo, gli altri musicalmente non mi dicevano niente, nonostante avessero un bel messaggio».
Erano anni in cui la proposta musicale era ancora molto primordiale…
«Sì, ma devi tener conto che la scena di Bologna era già musicalmente molto più integra. Anche dal punto di vista delle Posse. Se vai a sentire l‘Isola Posse All Star era qualcosa che gli americani avrebbero accettato, che la comunità hip hop internazionale accettava perchè aveva il giusto sound, mentre Roma no».
Basta pensare a uno come Dj Gruff, già attivo molto prima…
«Infatti Gruff aveva iniziato tra il 1982 e il 1983. Era però nato con l’hip hop, mentre per noi i centri sociali erano luoghi di grande espressione, da rispettare, anche se non tenevamo molto conto della famiglia. Venivamo tutti da famiglie popolari, e quel mondo era solo un altro modo per uscire dal disagio».
Tornando a parlare di discipline: tu hai fatto quasi venti anni fa il disco B Boy Maniaco, dove ti sei occupato delle basi e hai anche cantato. Ripensandoci dopo tutti questi anni, come vedi questo esperimento? Secondo te, è un bene tentare entrambe le strade o è meglio concentrarsi su di un solo aspetto?
«Premetto che il mio primissimo esperimento come Mc l’ho fatto in due singoli nel 1985 e 1986, poi in seguito con la Power MC’s assieme a Duke Montana e Julie P. Rappavamo in inglese, anche bene, ma eravamo ancora molto ingenui, anche perchè cantavamo in una lingua non nostra, cercando di dare un messaggio politico di street knowledge ma sbagliando lingua. È positivo mettersi in testa di rappare e di fare anche le basi, ma devi tener conto di una cosa: parlando ad esempio dei due album del Colle, avevano un’unità compositiva perchè fatti dalla stessa persona. Anche io rappavo in qualche pezzo, ma ero più concentrato sulle basi. Di conseguenza quei lavori sono molto più forti. È come ascoltare i Pink Floyd: in ogni disco trovi sempre lo stesso gruppo, che porta le proprie idee avanti di anno in anno. Chiaramente dopo ci si è dovuti confrontare con la logica della cooperazione. Come succedeva in America, in cui in uno stesso disco ci sono più collaborazioni tra diversi beatmakers. In Italia si è scimmiottato questo fenomeno fino ad arrivare a quello odierno delle collaborazioni degli americani a pagamento. Potrebbe interessare un discorso di questo tipo, sicuramente qualcuno all’interno della discografia italiana c’è che lo fa, magari non nel rap ma ad esempio nel turntablism, dove un artista, dalla A alla Z, si occupa di tutti gli aspetti del suo disco. È una variante che ci può stare: all’epoca non l’ho fatto per sperimentare, ma per risparmiare. Feci la copertina, la masterizzazione e il mixaggio, ma fu una necessità di tipo economico: più cose facevo, più risparmiavo. Aggiungiamoci che sono un musicista: il rap m’ha sempre appassionato, ma sinceramente sono molto più beatmaker e dj, scrivo quando ho la necessità di dire qualcosa. I miei testi sono spesso super cazzoni, per far ridere, o contestualizzati rispetto alla società, su di un tema che interessa tutti, di cui esprimo una mia visione. Come ben sai nel 1999 avevo partecipato molto attivamente al disco de La Comitiva, nel quale anche rappavo».
Tu vieni da una generazione che ha iniziato a fare rap con i campionatori analogici. Come sono stati i tuoi primi passi come beatmaker? Ho sempre molto apprezzato i beat di Odio pieno perchè li ho sempre trovati molto oscuri, anche se sapevo che non è stata una scelta totalmente volontaria, dovuta anche alla strumentazione in tuo possesso. Ai tempi usavi il mitico Akai MPC! Quali sono state le tue prime influenze come dj?
«La differenza sostanziale che puoi trovare tra i beat miei e quelli degli altri, degli americani, è che io sono un grande appassionato di musica in generale. Sono un collezionista, ho più di 60-70mila vinili, ho anche diversi hard disk pieni di Terabyte contenenti magari la stessa roba che ho in vinile, ma riportata in digitale. Ho un altro appartamento sopra il mio nel quale raccolgo i dischi. Fondamentalmente sono sempre stato appassionato al suono oscuro al di là di quali fossero i mezzi che possedevo, sono sempre stato un grande fan delle colonne sonore di film horror, di rock, funk, progressive anni 70, di roba con organi e grandi tappeti. Un suono che va dall’horror al grottesco. Questo lo puoi trovare appunto nel primo disco del Colle, mentre nel secondo c’è stata un’apertura più al funk, un po’ più personale. Il passaggio dall’analogico al digitale non mi ha creato problemi. L’importante è assorbire il suono, non come lo fai. Lì riconosci un produttore con lo stile, quando pur cambiando i mezzi continua a mantenere una certa omogeneità. Aggiungiamoci anche un fattore “razziale”, ma non lo dico per discriminare nessuno: io sono bianco, da piccolo avevo i 45giri di James Brown e li ascoltavo, ma avevo anche i dischi dei Led Zeppelin! L’influenza che ho avuto io, in qualche modo, è anche rock. Magari anche lo ska, ma quello bianco, dei Madness».
Oltretutto hai avuto una grande influenza dalla musica elettronica. Una cosa che non è poi così strana, basti pensare ad Afrika Bambaata che ha campionato i Kraftwerk in Planet Rock…
«In quel caso lì non è un campionamento, ma un’interpolazione: veniva risuonato, come se fosse una cover. Anche i Kraftwerk per Trans Europe Express riprendevano un pezzo di musica classica, per questo non ci furono querele né denunce tra di loro. Io amo anche la musica elettronica proprio perchè negli anni 80 la musica rap e hip hop era nota come electro. Ci sono state le compilation importanti Electro Hip Hop, prodotte dalla Street Sounds negli anni 80, che dal volume 1 a, credo il 25, contenevano pezzi hip hop molto belli mixati da dj inglesi e americani. Uno ci faceva delle cassette e poi andava a ballare, o si metteva a fare rap. Era appunto noto come “electro rap” o “electro hip hop”. I dj che vennero dopo, come Anthony Rother, Mode Selector, ma anche gli stessi Kraftwerk si trovarono a inserire più beat nei loro testi. Erano anni in cui questi generi si influenzavano a vicenda: la stessa techno di Detroit viene dall’hip hop, come anche l’acid house. I Cybotron hanno fatto Clear campionando Missy Elliot. L’hip hop è una sorta di arte marziale della musica, nella quale tu incastri di volta in volta nuove influenze. Così come poi negli anni 90 c’era la moda di campionare il soul jazz.»
Una delle canzoni che mi hanno sempre colpito del Colle è Il cielo su Roma. Secondo te com’è cambiata la città nel corso degli anni, e come invece Ostia, cioè la zona da cui provieni?
«Guarda, Roma non è cambiata molto, ci sono sempre le stesse contraddizioni: ci sono i fasci nelle case popolari e i ricchi nei centri sociali, come veniva cantato ne Il cielo su Roma. Non è ovviamente sempre così, ma queste sono le contraddizioni. È un posto dominato dalla Chiesa, e le parole di chi cerca di creare un minimo di coscienza vengono usate per calmierare i più scalmanati. È una città molto politica, piena di intoppi, dove la scena dei club e dei centri sociali non è vista di buon occhio. Basti pensare che negli anni 80 bastava andare a Rimini e nelle tv locali dopo una certa ora vedevi i porno, a Roma non si poteva fare perchè c’è il Papa (questo per fare un esempio). Oggi ti rendi conto che i grandi raduni di persone non piacciono a nessuno. È una città sempre al confine tra l’ordine e il disordine, a livello musicale molto fervente. Ci sono tanti talenti, ma c’è il problema che il business musicale si è sposato tutto a Milano. Negli anni 90 le case discografiche avevano se non una sede, almeno una succursale, ora non hanno più neanche quella.
Ostia rimane invece una città turbolenta, per quanto si possa esser calmata. Mi ricordo che negli anni 80 quando dicevo di venire da lì tutti sgranavano gli occhi pensando che fossi un delinquente. Oggi non c’è più questa visione, forse perchè si è abbassato il livello di Roma e si è alzato quello di Ostia. Certo che essendo una città sul mare subisce tante infiltrazioni malavitose, e lo spettacolo non è escluso: i malavitosi se non sono tra i proprietari sono tra il pubblico. Anni fa ha vissuto un periodo di gloria, cancellando completamente Fregene dalla mappa delle città di riferimento, mentre ora è ripiombata negli anni bui. C’è poco movimento, con cose da 200-300 persone, anche perchè è piena di blocchi, tra carabinieri e polizia».
Recentemente hai festeggiato trenta anni di carriera, ma sei ancora molto attivo ed interessato alla scena underground. Quali sono i tuoi progetti futuri?
«Ultimamente sto collaborando quasi solo con artisti emergenti, come Don Diego, Lord Madness. In questi giorni stiamo parlando di una collaborazione con il Colle Der Fomento su due brani del loro nuovo disco. Collaborerò con Sparo dei Gente De Borgata, uscirà un MLP con un ragazzo di Torino, Rata, del Covo Delle Bisce. Ho spinto un bravissimo Mc genovese come Roggy Luciano, collaboro con i Fluido, con Dj Skizo… ho recentemente remixato alcuni brani dei Fingernails, un vecchio gruppo heavy metal di miei amici, per cui ho anche fatto la copertina del disco nuovo. Sono ancora molto attaccato al rock, il mio gruppo preferito attuale è quello dei Karma To Burn».
In questo periodo sta tornando in auge il vinile. Tu supporti ancora questo formato?
«Sì, dipende molto dal progetto. Il vinile è uno dei migliori supporti, è come il sesso: nasce dalla frizione di una puntina sui solchi. La musica è un orgasmo. Poi chi cerca il vinile chiaramente lo compra perché vuole l’oggetto: non c’è grande differenza con l’mp3 se quello che stai facendo ti piace! Ho anche lavorato in un negozio di dischi e capisco la passione per il vinile».
Un’ultima domanda: prima hai detto che molte cose sono rimaste solo in cassetta? Metterai online il materiale contenuto nei nastri che hai conservato?
«Certo! Conservo ancora molto materiale, ho ancora addirittura dei video vecchi che le case discografiche non erano interessate a pubblicare. Annuncerò tutto tramite la mia pagina Facebook e quella Soundcloud».
Le foto di Ice One sono di Gloria Viggiani
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