Mi riferisco ad un libro che ha un titolo esteso, seguito da un sottotitolo ancora più lungo, un vero e proprio “paradigma” riferito ad una città che si è autodegradata a paese, suicidandosi nelle sue nobili tradizioni civili, politiche e sociali. Un libro che offre la possibilità di avere la descrizione, la fotografia di un ambiente umano di antico e storico prestigio, oggi purtroppo inghiottito da quel mostruoso
habitat che è diventato l’
hinterland napoletano che si distende tutt’intorno a
“sterminator Vesevo”. Mi riferisco alla
Città di Sarno. Un paese dove non sono nato ma dove ho trascorso gran parte della mia esistenza. Un luogo purtroppo assurto al
disonore delle cronache internazionali qualche decennio fa per il dissesto ambientale, tuttora ancora irrisolto, le cui conseguenziali,
disastrose frane risparmiaromo me e la mia famiglia ma causarono tante vittime innocenti. Vivevamo, e tuttora in parte ancora ci abito, proprio nell’occhio del ciclone che è una delle frazioni di questa Città.. Questa dà anche il nome alla Valle, alle spalle del
Vesuvio, nota come
Valle del Sarno. L’autore di questo libro è un vecchio amico di infanzia di questo bibliomane, anche se chi scrive ha qualche anno in più. E’ un appassionato e valente docente di materie letterarie nonchè formatore e docente universitario: il
prof. Alberto Mirabella.
A prima vista il libro potrebbe sembrare interessante solo per i limitati aspetti culturali riportabili a studi di linguistica, di dialettologia ed alla storia del
folklorelocale. Man mano che lo si sfoglia ci si accorge, invece, che il libro di Mirabella è un ottimo strumento di lavoro per conoscere le radici della microstoria dei fatti, delle vicende, dei luoghi e dei personaggi che hanno vissuto e tuttora vivono in questa terra. Con l’aiuto di un libro del genere si possono, infatti, studiare le trasformazioni subite negli usi, nei comportamenti e nelle abitudini degli abitanti nel corso del tempo. Una chiave per decifrare le ragioni del decadimento di questo ambiente, attraversato dal fiume omonimo sulle cui sponde fiorì un tempo la ricca civiltà osco-sannita. Ma tutto questo accadeva qualche millennio fa. Qui intendo parlare dell’oggi o del recente presente, senza necessariamente navigare nei secoli trascorsi. Basta ricordare quello che era questa Valle e questa Città soltanto poche decine di anni fa, tra la fine del secolo diciannovesimo e gli inizi del novecento. L’epoca gloriosa dei grandi insediamenti industriali, dei capitalisti illuminati che portavano nomi come
Franchomme, Buchy & Strangmann, Turner, D’Andrea, Robustelli. Migliaia di posti di lavoro, nuove fabbriche, nuove strade di accesso veloce realizzarono quello che i libri di storia chiamano il
“miracolo industriale” di Sarno. Addirittura qualcuno chiamò la città di Sarno
“la Liverpool del Mezzogiorno d’Italia”. La sola fabbrica
Buchy, produttrice di tela e canapa, occupava oltre duemila operai. Questo
“miracolo” fu possibile anche per una lungimirante politica dei trasporti.
Ferdinando II aveva intuito l’ímportanza strategica del trasporto su
“strada ferrata”. L’invenzione della macchina a vapore e della rotaia veniva così sperimentata anche in Italia. Il 3 ottobre 1839 con l’inaugurazione della prima ferrovia d’Italia, la mitica Napoli - Portici, aveva avuto inizio anche da noi l’epopea ferroviaria. Nel maggio dei 1841 si prosegui fino Torre del Greco e, nel maggio di tre anni dopo, nel 1844, si giunse fino Nocera. In meno di cinque anni la linea Napoli - Nocera era completata. I manufatti delle fabbriche di Torre, Scafati, Angri e di Nocera venivano portate direttamente nel porto di Napoli e di là inoltrati per tutte le destinazioni. La costruzione della rete ferroviaria nella nostra Regione era solo all’inizio. Presto le località più significative come Castellammare, Gragnano, Acerra, Capua, Nola, Palma e finalmente Sarno venivano raggiunte dal ferro delle rotaie e dal vapore delle fumose locomotive. Il 16 Gennaio 1856 la prima locomotiva arriva a Sarno:
“Memorabile giorno, degno di essere scritto a lettere d’oro nelle cronache cittadine, quello del 16 gennaio 1856”. Così lo Storico ricorda il giorno dell’arrivo a Sarno della prima locomotiva. E così descrive quella splendente giornata di quel lontano freddo inverno. “Sarno esultava, mille e mille bandiere garrivano al vento da ogni balcone, da ogni finestra. Dal Castello colpi di mortaretti. Musiche per le vie rigurgitanti di popolo in festa. İl treno entrò lucido d’acciaio e di ottoni, fumando, strepitando, nella stazione nuova, fra le commosse acclamazioni d’innumerevole folla. Tutte le autorità erano sul posto; v’era anche il Vescovo Mr. Fertitta. Da una intonata orazione il Re veniva fuori aureolato di saggezza, di bontà, di sapienza”. Così la prima locomotiva, annunciata all’orizzonte da una densa nuvola di fumo nero e dal penetrante modulato fischio, entrava, solenne, nella “novella” Stazione. Aveva percorso i ventisette chilometri che la separano da Cancello in appena mezz’ora. E lo stupore della gente festante, giunta da ogni dove, era grande. La Stazione odorante ancora di pittura fresca si presentava nelle sue linee semplici ed essenziali. Addobbata con festoni e bandiere di ogni foggia e colori presentava al vasto pubblico acclamante il proprio organico al completo: il Capo Stazione, un Ricevitore, un Guardiamagazzino, due Commessi e due Controllori di porte, tutti eleganti nelle nuove marziali divise. Nel piazzale, sostante su uno dei due binari, la locomotiva, una “Buddicom” di costruzione inglese del 1843, diretta erede della mitica “Bayard” della Napoli-Portici del 1839, dava spettacolo di sé esibendosi, come prima donna, in grandi sbuffi di vapore bianco. Tutto intorno una folla entusiasta tenuta a rispettosa distanza da un baffuto ed annerito fuochista”. (***)
Anche tra la prima e la seconda guerra mondiale e fino alla metà degli anni cinquanta, continua la storia della Sarno industriale, la Sarno imprenditrice, la Sarno culturale, la Sarno agricola e produttiva. Ma comincia anche a delinearsi la Sarno dei grandi fallimenti, come quello della chiusura dello stabilimento STAR e della perdita di tanti posti di lavoro. Ma lo sapevate che a Sarno scomparvero anche le acque minerali? Sì, avete letto bene. Una delle voci mancanti nel libro è quella riferita all’acqua “zoffregna”, l’acqua solfurea con i relativi bagni e fanghi minerali ai quali io, ancora ragazzo, accompagnavo mia madre per curare le vene ed i reumatismi. Con l’avvento della prima ondata di una presunta modernità degli anni sessanta comincia il lento, nascosto, strisciante declino che porterà ad una lesiva stagnazione umana, seguita da una grave decadenza politica, sociale ed istituzionale che si caratterizza ancora oggi nell’attuale triste contemporanea quotidianità. Una Città degradata ad anonimo e sfregiato “paesone” senza identità umana, sociale e politica. Aveva un suo carattere, una propria specificità in termini di qualificazione, natura e riconoscimento sia all’interno che all’esterno. Sono questi i “valori” delle varie voci proposte che potevano anche andare oltre i limiti dei piccoli gli spazi di una piccola provincia meridionale che l’Autore di questo prezioso libro cerca di salvare.
Molte volte nel libro di Alberto Mirabella ricorre il nome, non in forma di soprannome ma come riferimento bibliografico, di un prete poco amato e altrettanto poco riconosciuto in vita per il valore dei suoi studi. Il personaggio portava il nome di Silvio Ruocco. Don Silvio è stato il primo, unico, vero, grande storico moderno che la Città di Sarno abbia avuto. Tutti gli storici d’oggi sarnesi non possono nemmeno immaginare come don Silvio scriveva i capitoli della sua “Storia di Sarno”. Una calligrafia a mano di difficile lettura ed interpretazione faceva penare i compositori che dovevano decifrare quanto lui aveva scritto e che poi dovevano comporre a mano lettera per lettera. Gli scrittori contemporanei di questa Città, veri maestri del “copia e incolla”elettronico, devono a lui, don Silvio, alla sua scienza storica ed alla sua abilità di scrittore e ricercatore, tutto quello che sappiamo del nostro passato. Ricordo che mio padre mi affidava il compito di portare alla sua casa in viale Margherita le bozze della sua “Storia ” che il prete gli ordinava di stampare a sedicesimi, con cadenza periodica e quando c’erano i soldi. Burbero e poco incline alla conversazione, don Silvio era poco amato dai compaesani. Una donna panciuta vestita di nero mi apriva la porta e lo avvertiva a gran voce che “‘o guaglione r’o stampatore” aveva portato i fogli. Mi faceva entrare e li prendeva con un mugugno che mi sembrava un grugnito. Mi indicava poi con la mano la porta. Anche io avrei potuto avere un posto ed un soprannome in questo libro soltanto se il buon Alberto avesse ricordato che mio padre era “ ‘o stampatore” di piazza Municipio ed io suo figlio. Sono queste solo alcune delle “voci di mestieri” e “modi d’essere” che mancano in questo libro. Se ne potrebbero elencare molte altre ma ci vorrebbero volumi. Mi sono permesso di segnalarle solo per dire che quelle che così pazientemente ed abilmente sono state individuate e presentate da Alberto testimoniano il suo grande amore per questa Città che ha sua lunga storia. I “soprannomi”, quindi, oppure i“stuortenomi”, come identità, storia personale e relazionale aggiuntiva. Altra “voce”assente, ma per fortuna ancora “viva” è quella di un altro noto personaggio sarnese che l’autore del libro presenta invece sia in foto che in diverse citazioni poetiche e che risponde al soprannome, di “masta gino”, alias Gino De Filippo. Manovale, muratore, autodidatta, ma anche pittore, scrittore, poeta sia in italiano che in vernacolo, “masta gino” impersona il grande spirito creativo individuale artistico e libertario che palpita nascosto in molti uomini del Sud. Di lui è uscito di recente un’antologia dei suoi scritti sia in prosa che in versi, a cura di chi scrive. Un modo come un altro per onorarne la figura e la produzione artistica. Un personaggio sarnese che ha raggiunto la bella età di ottanta anni e che non ha mai voluto rinunciare al suo rigore morale mantenendo sempre la propria indipendenza anche a caro prezzo. Molte delle immagini che corredano questo post sono suoi lavori. Portano chiaramente il suo stile e le sue caratteristiche riportabili al suo soprannome di “masta gino” sinonimo di creatività, ingegno, precisione e stile.
Ma torniamo ai
“valori paradigmatici” dei nomi nel libro di Mirabella.
“What’s in a name?” - “Che cos’è un nome?”, si chiede ingenuamente la
Giulietta di
Shakespeare quando non riesce a comprendere le ragioni per le quali lei, che ha per nome Capuleti, non può amare
Romeo che ha per nome Montecchi. Com’è possibile che ci possano essere tante differenze e contrasti con alla base soltanto un
“nome”? Nella sua situazione Giulietta ha ben ragione a chiederselo. Alla stessa maniera di come si giustificano queste centinaia di
“voci” sotto forma di nomignoli, soprannomi ed appellativi che scorrono nelle pagine di questo libro. Metafore, clichès, stereotipi, iterativi, sinonimi o antonimi, chiamateli come volete, essi identificano realtà scomparse, ricordi diventati davvero ombre troppo lunghe di una realtà locale diventata troppo corta.
“Realtà di un popolo che sente la necessità di pensare anche in termini di localizzazione e di circoscrizione”,
“genesi vettoriale” che, purtroppo, a mio sommesso parere, non ha portato a sviluppare una
“linea progressiva di apprendimento che parte da un punto noto per scoprire situazioni e regioni sempre più allargate”. Così si esprime il
primo cittadino nella stringata presentazione dell’opera senza dare ragione di questa usanza e della relativa decadenza sia degli stessi che del luogo dove vivono. Ecco come si manifesta la trasformazione, la decadenza e la fine di una realtà comunitaria che aveva una sua capacità creativa, una sua propria sintesi, tra il reale e l’ideale, sfidando quasi sempre impensabili difficoltà con spirito e senso del dovere, della fatica e dell’umorismo.
Nel leggere queste “voci” che Alberto Mirabella ha fatto emergere dalle profondità di un passato sarnese che non ritorna, ho avvertito forte la mancanza di una guida che potesse aiutarmi a meglio comprendere e descrivere certe situazioni e certi personaggi che compaiono nel libro. Ho pensato a mio nonno Michele, il fondatore di quella che fu la “Arti Grafiche M. Gallo & Figli”, ho pensato a mio padre ed ai suoi fratelli tipografi ed editori, a Sarno come a Napoli, testimoni e trascrittori di una realtà locale scomparsa. Se fossero stati ancora vivi mi avrebbero aiutato a comprendere meglio nomi e soprannomi, posizioni e situazioni, luoghi e artifizi, usi e costumi perduti sull’onda del tempo. Avrei potuto sapere di più su quelle generazioni di lavoratori che si alzavano alle quattro del mattino e sciamavano verso quelle fabbriche del loro lavoro rispondendo al richiamo della “tufa”, come veniva chiamata la sirena che cadenzava le ore di lavoro. Anche questa “voce” non è presente nel repertorio del libro. Sono sicuro che i miei antenati l’avrebbero volentieri segnalata ad Alberto. La Città di Sarno era davvero una città nobilmente operosa, attiva e viva nei suoi molteplici aspetti, così come si può evincere dalle mille sfaccettature che la realtà esistenziale si manifestava in queste “voci” che solo in apparenza sono quello che vogliono sembrare. La prova la si trova non tanto nell’esauriente quarta parte del libro che contiene la bibliografia e le fonti utilizzate, quanto in quella successiva, la quinta, che contiene l’elenco delle pubblicazioni su Sarno, a partire dall’ottocento ai giorni nostri. Colgo l’occasione per segnalare al bravo e preciso Alberto un’altra mancanza nel suo elenco. Quella che riguarda il periodico “ORA nel Mezzogiorno” fondato e diretto da Salvatore d’Angelo. Un giornale che visse di lotte e di indipendenza per oltre dieci anni, vale a dire dal 1982 al 1993. Se si consultano a fondo i numeri di questa importante pubblicazione si potranno fissare nel tempo i primi segnali del grave decadimento umano, sociale, politico e culturale cui andava incontro la comunità sarnese. Sfogliare quelle pagine è un’operazione che faccio spesso e trovo conferma di quanto sostengo con tuttta la modestia di chi sa di avere avuto torto.
Non è il caso di intentare in questa occasione processi a chicchessia. Resta il fatto doloroso che questa Città è stata degradata a Paese dalle varie classe dirigenti che si sono alternate al governo della città. Una ex-città che non è quella che l’attuale
Sindaco Amilcare Mancusi, nella citata presentazione del volume, vuol far credere, parlando della valenza e del valore del
“soprannome”. Egli chiama questa valenza e questo valore,
“link”,
“vale dire un’area riservata ma facilmente individuabile da un colore o da un segno o da una immagine”. Nella moderna forma di comunicazione, invece, il concetto di
“link” presuppone un riferimento attivo, ecclettico, altamente competitivo e selettivo, dinamico nelle sue prospettive ed atteggiamenti. Nella realtà di questa Città, che si è autodegradata volontariamente a Paese, sotto la perversa guida di molti suoi amministratori, è rimasto soltanto quel romantico ma distruttivo atteggiamento del ricordo, della memoria, per il bel tempo antico, il tutto frammisto ad un senso di autocommiserazione che ben si accoppia con i sentimenti di frustrazione, servilismo, approssimazione e qualunquismo.
Nessuna istituzione ne esce indenne, siano esse laiche o religiose, politiche o culturali, locali o nazionali. Chi non ricorda il cosi detto “onorevole” “ Paschitte”? Anche Mirabella lo cita nel suo libro. Egli non ne ricorda i comici trascorsi “parlamentari” pur scrivendo che “girava senza mai distaccarsi dalla borsa e sosteneva che avrebbe portato il mare a Sarno destando grande ilarità”. Ricordo che durante le campagne elettorali nelle quali noi giovani sarnesi ci dilettavamo a seguire le accese battaglie elettorali nei comizi in piazza Municipio, tra falci e martelli, campane e gallinacei (Alberto ricorda “ ‘’o Allo” - il simbolo del “gallo” di capuana memoria), dopo ogni comizio interrogavamo l’on. Paschitte sul suo programma elettorale. Lui ci rispondeva confermandoci che se fosse stato eletto avrebbe portato il mare a Sarno!. Dichiarava che San Matteo sarebbe stato il lungomare! Quanti senatori ed onorevoli abbiamo visto passare sui palchi elettorali di piazza Municipio. Personaggi, spesso solo figuri sia locali che forestieri, che abbiamo con piacere dimenticato. Ma ci ricordiamo con allegria l’innocuo, tranquillo e sopratutto onesto “onorevole Paschitte”. Bravo Alberto! per averci ricordato insieme a questo amabile ed innocuo personaggio della nostra giovinezza tanti altri dimenticati nel fiume del tempo della identità di questa Città degradata a “paese”. Quanti altri personaggi e voci simili avresti dovuto/potuto ricordare nel tuo lungo elenco, carissimo Alberto. Sindaci, assessori, senatori e onorevoli a vari livelli, tonache nere o bianche, personaggi da sepolcri imbiancati, di città vicine o lontane, raccoglitori di voti e distribuitori di promesse mai mantenute, personaggi che hanno fatto della loro azione politica soltanto occasioni di interesse particolare e provocato nel tempo il degrado e il declassamento di questa Città che oggi è solamente uno dei tanti paesi di quella grande periferia che è l’entroterra napoletano. Sarno ormai resta famosa nel mondo soltanto con il soprannome di “‘o paese re ffrane”. Un triste “soprannome”: vero paradigma di una città che ha perso la sua identità.
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ALBERTO MIRABELLA:
“Il valore paradigmatico dei soprannomi a Sarno”
Termini, mestieri e giochi finiti nell’oblio.
Ovvero r’i stuortonòmme. strangenòmme, scangianòmme e anginòmme
Brunolibri Editore, Salerno, 2010
ISBN 978-88-86836-60-9