Gioacchino Ruocco canta "Ostia...in poesia"
Con il libro: "Avverbi, diverbi e sentimenti” il poeta pone Ostia al centro dei suoi versi e l’amore per la cittadina si somma al dispiacere per il suo “martirio. La compostezza dei versi di Ruocco è un mondo turbinoso, in cui l’amore e l’angoscia convivono
Avverbi diverbi e sentimenti
(AGR) di Ginevra Amadio
“Avverbi, diverbi e sentimenti”: già dal titolo un gioco autoironico, lo specchio di un’evoluzione intellettuale e umana, che interseca i moti sociali, creativi, amorosi dell’autore. Gioacchino Ruocco dedica alla scrittura ogni anelito vitale, consacrando il tempo notturno all’ispirazione, alla revisione, e i bagliori del giorno a nuove, intense scoperte. L’osservazione del reale, di dettagli minimi tratti dall’esperienza costituisce il nerbo della sua attività creativa, laddove ogni oggetto si fa spia di un certo tempo, di uno stato interiore che tracima sulla pagina.
Lo testimonia la prima lirica («Ostia è / di chi viene a dormirci / per una notte sola, / di chi non ha parole / per farne poesia»), in cui l’amore per la cittadina si somma al dispiacere per il suo “martirio”, evocato – a pagine di distanza – dalla citazione pasoliniana di “Supplica a mia madre” (da “Poesia in forma di rosa”, Garzanti, 1964), inserto doloroso volto a rievocare la morte del poeta all’Idroscalo: «Mi persi in quella notte / senza bestemmiare / contro quell’immane / bestialità / che non di sacrificio si trattò / ma della perdita / di qualcos’altro / del nome più incivile».
La compostezza dei versi di Ruocco non deve però trarre in inganno: il suo è un mondo turbinoso, implacabile, in cui tanto l’amore quanto l’angoscia rifluiscono in atmosfere pulite, eppure cariche di tormenti. Si veda la lirica “Ancora”: «Ancora a chiedere a Dio / perché mi ha messo al mondo, / ancora una volta in più / a mettere in mostra / i miei difetti». Il mondo naturale, qui partecipe dello stato emotivo dell’io, si fa metafora della stasi, dell’impossibilità di attingere l’inconoscibile: «Anche le formiche / erano ferme, / stavano / senza niente da fare / da anni».
Il poeta si addentra nelle immagini, indaga i rapporti fra segni e significati giocando, finanche, con le cadenze dialettali, in una continua reminiscenza classica, che chiama in causa il Belli (“Quello che avanza del tempo”) o altre, contemporanee, esperienze della “strada” (si pensi alla Street Poetry).
I riferimenti letterari si moltiplicano, in un gioco i rimandi espliciti o nascosti che invita il lettore a sostare tra i versi, a goderne la pienezza e l’eco. Eugenio Montale, Antonio Fogazzaro o ancora Giovanni Pascoli, Ungaretti, tanti nomi affollano il mondo di Ruocco, ne plasmano la visione che è sempre accogliente e acuta, capace di cogliere l’ispirazione e poi sovvertirla, dando vita a qualcosa di ‘altro’.
Alcuni versi urticanti restituiscono stilisticamente il senso del bruciore, come in “Controtempo”, dove le allitterazioni («mentre ti accompagno / quando c’incontriamo / controtempo») e la variazione («la noia che annoia») rendono il senso del consumarsi, sino all’immagine dura, potente, della bocca che brucia «come soda caustica».
La partitura stilistico-espressiva è raffinata e tersa al tempo, vicino all’impianto narrativo ma capace di dinamismi vivaci, espressi nelle figure di suono o nella punteggiatura ‘libera’, talvolta assente (emblematico, in tal senso, “Ultimo atto”). Spiccano e commuovono alcuni gruppi sparsi di liriche dedicati all’amore, al sentimento di un quotidiano che si rinnova ogni giorno: «Sul mio viso / le rughe sono assenti, / sul mio grava / un poco di stanchezza, / due volti / senza ebrezza / in questo istante», da “Per un istante almeno); «Quando ti guardo / vedo sul tuo viso / lo stesso segno / mi si allarga il cuore / alla speranza», da “Se avessi pianto”).
Di fronte al mistero dell’esistenza è la sensazione, “il cuore” a calcare le scene. La ragione si ritrae, non senza pungere tra le righe, in un viaggio sentimentale e umano, che non smette di raccontare.
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