Uranio, madre militare Sfor "Mio figlio morto di serie B"
Fulvio Pazzi si ammalò di tumore al ritorno da una missione in Bosnia. La donna si batte da tempo perché gli venga riconosciuto lo status di 'vittima del terrorismo'
"Mio figlio è stato in missione in Bosnia e, ad ucciderlo non è stato un proiettile o una granata, ma un nemico invisibile dal quale non si poteva difendere: l'uranio impoverito. E per questo non è stato considerato alla stregua dei suoi commilitoni che hanno trovato la morte in azione". E' l'amara denuncia di Teresa Ruocco, madre di Fulvio Pazzi, militare italiano inquadrato nella missione delle Nazioni Unite Sfor, partito per la Bosnia nel 2000, ammalatosi di tumore tra il 2001 e il 2002, e morto per un linfoma non Hodgkin il 24 agosto del 2003.
Teresa si batte da tempo affinché al figlio venga riconosciuto lo status di "vittima del terrorismo" e non quello di "vittima del dovere", così come avvenuto di recente.
La signora Ruocco abita nel quartiere Vomero di Napoli, è vedova, e ha un altro figlio, anch'egli in lotta con problemi di salute emersi dopo una missione in Somalia. Il 20 marzo di quest'anno, dopo quasi dieci anni, il ministero della Difesa riconosciuto Fulvio "vittima del dovere", una definizione che, però, sta stretta alla signora Ruocco.
"Chi muore in quelle che chiamano missioni di pace per mano del nemico è uguale a chi la vita l'ha persa in un letto d'ospedale devastato da una malattia contratta per l'esposizione all'uranio impoverito dal quale doveva essere diverso - sostiene - non devono esserci differenziazioni". "Anzi, - aggiunge - chi parte per le missioni all'estero sa di dovere affrontare un nemico ben definito, è
stato finanche addestrato per questo. Mio figlio, e tutti gli altri militari italiani che hanno subito la sua stessa sorte, si sono recati in guerra ignorando a cosa si stavano esponendo e chi doveva proteggerli non lo ha fatto".
"Non è una battaglia legata al trattamento finanziario quella che sto portando avanti - conclude - ma una battaglia affinché venga fatta giustizia perché mio figlio non può essere considerato alla stregua di un morto di serie 'B' e affinché quello che gli è accaduto non accada più".
Il lanciere Fulvio Pazzi, volontario in ferma annuale, ha ricoperto l'incarico di "Esploratore Blindo Leggera" nell'ambito dell'Operazione Nato "Joint Force" in Bosnia Herzegovina. La madre di Pazzi ha ricevuto cinque dinieghi alle sue istanze e il riconoscimento di "vittima del dovere" è giunto solo lo scorso 20 marzo. "La Campania, insieme a Sardegna e Puglia - dice l'ammiraglio Falco Accame, ex presidente della Commissione Difesa della Camera, che da molti anni si batte per i diritti dei soldati - sono le regioni più colpite da questo fenomeno".
Ottavio Tazzi se ne è andato due anni fa, l’11 settembre del 2013. Aveva 84 anni. Per tutti era “il nonno”. Uno di quei maestri di una volta, un romantico dal cuore d’oro. Uno che insegnava boxe e sapeva anche regalarti consigli di vita. C’è sempre tanta voglia di beatificare un personaggio che muore. Stavolta le parole gli rendono meno onore di quanto ne meriterebbe. E’ stato all’angolo di sette campioni del mondo. Ognuno di loro lo ha amato come se fosse uno della famiglia. E lo ha ascoltato, perché le sue parole venivano dal cuore. L’ultimo, Giacobbe Fragomeni, così mi ha raccontato la loro amicizia. E così io l’ho scritta in un libro. Era ancora un ragazzo perso quando un amico l’aveva convinto ad accompagnarlo in palestra. La “Doria” di Ottavio Tazzi a San Babila. Era l’aprile del 1990, Fragomeni aveva 21 anni. «Era un grande “il nonno”. Come uomo e come maestro. Mi ha fatto innamorare di questo sport. Avevo capito che solo lo sfinimento fisico che la boxe riusciva a darmi poteva aiutarmi a uscire dal buco nero in cui mi trovavo. Mi sono disintossicato. Sei mesi dopo ho chiesto a Tazzi di combattere. Ricordo ancora il suo sguardo. Ero goffo, grasso, inesperto. Mi ha detto tutto questo solo guardandomi negli occhi. Non mi ha detto neppure una parola, non gli servivano. Era bastato quello sguardo. A fine 1992 ero a Sanremo per disputare la finale dei campionati italiani contro Cantatore».
Con un padre o un fratello puoi discutere, addirittura litigare. Col nonno no, con lui dovevi solo fermarti ad ascoltare. Lui insegnava e tu imparavi. Tien giù il barbèl (Non esporre il mento ai colpi) Pica, fà andà i man (Dacci dentro, fai andare le mani) L’ultim culp l’è il sinister (Chiudi sempre la serie di colpi col sinistro) El pes sè fà a tavula (Il peso si fa a tavola) Ognun el gà i mann che sè merita (Ciascuno ha nei colpi la potenza che si merita) Pica al fidegh che l’è un gainatt (Colpisci al fegato che é uno che beve) Sul ring se va alegher (Sul ring bisogna salire con entusiasmo) Pica al magasin del cacau (Colpisci allo stomaco). Parlava così Ottavio, era la sua lingua, il suo modo di comunicare. Era nato a fine dicembre del ‘28 in via Lulli a Milano, ottavo di nove fratelli. Sposato con Franca, padre di tre figli: Alvaro, Remo e Danila. Per lui quella del nonno era una professione, un modo di vivere. Nonno lo era diventato davvero per sette volte, aveva anche due bisnipoti. La pelle chiara, il volto leggermente scavato. L’abito preferito era la tuta da palestra. Non l’ho mai sentito urlare, né parlare male di nessuno. Non era certo un santo, ma aveva un profondo rispetto per le persone.
Ai suoi pugili ha insegnato la nobile arte. È stato con Rocky Mattioli, con Kamel Bou Ali. L’ultimo campione, quello a cui era probabilmente legato più di tutti perché aveva una storia fatta di sofferenza, lotta e riscatto, è stato Fragomeni. Anche e soprattutto perché Giacobbe aveva trovato in palestra la salvezza da una vita che sembrava potesse regalargli solo tragedie, sofferenze e umiliazioni. Tanti i ragazzi che si sono salvati grazie alla boxe, molti quelli che l’hanno fatto avendo come guida proprio Tazzi.
La Doria era il luogo di un pugilato antico. Nessun lusso, solo lavoro, sudore, impegno. L’aveva messa su Spartaco Doria, ex dilettante, a due passi da San Babila. Negli anni Settanta con Ottavio Tazzi era diventato il covo della Branchini-Totip, la gloriosa scuderia pugilistica del grande Umberto Branchini.
A volte potevi vederci dentro anche sessanta ragazzi in allenamento. Tutti assieme. “Quante cose si fanno sapendo che sono uno sbaglio quante cose si fanno sapendo di farsi del male Chissà cosa affascina tanto, chissà cosa piace in un uomo che sbatte alle corde e non vuole cadere”. Pacifico l’aveva messa in versi e ne aveva fatto una canzone e un videoclip con la regia di Andrea Rocchi, “Boxe a Milano” l’aveva chiamato. Uno splendido bianco e nero.
L’ispiratore di quelle parole era Ottavio Tazzi. Il nonno che amava più i “brocchi” dei campioni. «Perché hanno cuore, ci vuole coraggio a salire su un ring!» E quando raccontava i suoi anni migliori, metteva in fila nei ricordi quei pugili che un titolo non avevano potuto neppure sognarlo.
Li citava uno a uno e gli piaceva accomunarli ai campioni. Paini, un perdente che dava sempre spettacolo, aveva un posto accanto a Rocky Mattioli che al mondiale era arrivato e l’aveva vinto.
Callegari, che faceva il diavolo a quattro per combattere e le poche volte che vinceva era festa per tutti, stava accanto a Giacobbe Fragomeni, uno che la cintura mondiale l’aveva conquistata davvero. Quando Giaco era entrato per la prima volta in palestra era già un uomo. Basso di statura e grosso di fisico, giocava a calcio. Ma alla fine si era convinto a provare qualcosa che lo impegnasse di più. La Doria era al numero 6 di via Mascagni. L’ingresso in un cortile con tanti palazzi attorno. Era la vecchia sede del partito comunista. Alla fine della discesa c’era un meccanico, la porticina a fianco era quella della palestra. Dopo un piccolo corridoio, una porta stile saloon introduceva nella sala con il ring sulla sinistra, sulla destra un’altra porta che conduceva nell’ufficio. Gli spogliatoi avevano tre docce e un bagno alla turca. Roba rudimentale, vecchia. Alla destra del ring c’erano quattro sacchi. Il pavimento era di un triste linoleum verde. Le ragnatele costituivano il patrimonio culturale della palestra, guai a chi le toccava. C’era odore di sudore, di olio per i massaggi. Manifesti di vecchie riunioni con le foto dei pugili di una volta. I finestroni affacciavano sul cortile piccolino. Un orologio scandiva il tempo della fatica sulla parete sopra il ring.
«Quando sono entrato in palestra c’era tanta gente che faceva ginnastica nella saletta, energumeni tutti tatuati che picchiavano il sacco. Quando ho aperto la porta dell’ufficio avevo il cuore che andava a tremila all’ora. Ho subito visto “il nonno” e mi è tornato in mente com’ero arrivato fin lì. Me ne stavo sul tram e vedevo sempre questo ragazzo con la borsa della palestra Doria Totip. Io all’epoca pippavo. Il tram era il 15: lo chiamavo la Freccia del Sud. Andava verso Gratosoglio, Rozzano. Era il mezzo che ci collegava con l’altro quartiere. Lì si andava a picchiare, a fare i deficienti, a cuccare le ragazze degli altri, insomma a fare casino. Ero uno che non parlava mai. Aprivo bocca solo quando mi chiedevi qualcosa. Nella mente avevo solo cattivi pensieri. Non ce la facevo, morivo. Non avevo futuro, non avevo presente, cercavo di sopravvivere e basta. In testa un chiodo fisso: smettere di fare quella vita lì. Ma adesso ero nell’ufficio di Ottavio Tazzi, il maestro. Ero bloccato, non sapevo cosa fare. Mi sono presentato. Credo di essergli piaciuto subito. Ho cominciato ad allenarmi. Mi ricordo benissimo cosa mi ha risposto un attimo dopo che gli ho chiesto di fare il pugile. “Sei un grassone, dove vuoi andare?”. Il nonno mi guardava e vedeva un ciccione di 120 chili. In tre mesi ero sceso a 90. Altri due mesi ed ero arrivato a 81. In palestra nessuno mi cacava, c’erano tanti pugili, dovevi dimostrare di valere. Io lo facevo per stare bene, per tirarmi fuori da tutto. Quando arrivava il nonno a dirmi una frase obbedivo e andavo avanti così fino a quando non arrivava a darmi un altro ordine. Sapevo che era una figura forte della palestra, sapevo che dovevo seguirlo. Ero schivo, me ne stavo sempre solo. Avevo grande rispetto nei suoi confronti. Quello che diceva per me era la bibbia. Era nato un rapporto forte, mi sono impegnato e loro hanno voluto provare. Sul ring ero un disastro, botte da orbi. La prima volta che ho fatto i guanti ho provato una grande emozione.
Ho preso dei colpi, ho chiuso gli occhi, girato la testa.
“Giaco, devi guardare, altrimenti prendi più botte”.
Mi caricavo, mi impegnavo sempre di più. Mi hanno procurato un incontro con Ruocco. C’era Conti, il presidente della palestra, faceva tutto, era un personaggio incredibile.
Mi ha chiesto: “Vuoi combattere?”. Doveva fare punti per la società. Grazie a lui dopo 30 incontri ero in nazionale. Ascoltavo sempre il nonno. Mi diceva: “Devi combattere”, e io non chiedevo niente. Imparavo a fare la boxe. Un match alla settimana.
Ai tempi c’era Tyson, e Sirtori, l’aiuto di Tazzi, mi ripeteva: “Fai come lui”.
Continuavo a frequentare gli amici, ma senza fare niente. Andavo ai concerti dei metallari, musica forte. Nel saltare, uno parte e mi dà una gran botta. Mi rompe il naso.
Il lunedì in palestra non ho detto niente, ci sono andato anche se avevo il setto nasale fratturato. Ogni colpo che prendevo, scendevano giù i lacrimoni, avevo gli occhi neri.
L’esordio l’avevo fatto con Ruocco a Savona, da mediomassimo.
Me ne stavo seduto nello spogliatoio. Sirtori era nervosissimo. “Vuoi stare fermo, devo combattere io, mica tu”. Ho vinto per squalifica, l’altro portava solo ciabattate.
Avevo capito che se volevo raggiungere il mio obiettivo, uscire fuori dalla droga, la boxe era l’unica cura possibile.
Da quel momento ogni azione della mia vita ha avuto un’unica finalità: fare il pugilato. Tutto ruotava intorno a questo. Ogni volta che tornavo a casa dalla palestra, ritrovavo le stesse tentazioni. Ma non ce la facevo più a veder soffrire la mamma. Ero disposto a qualsiasi sacrificio. E così nella ricerca del lavoro avevo una priorità assoluta: andava bene tutto quello che mi avrebbe lasciato il tempo per allenarmi.
Facevo l’asfaltista, guadagnavo quattrocentomila lire a settimana. Dovevo buttare dentro l’asfalto vecchio. Anche d’inverno sentivo caldo. In estate ero viola, lavoravo a petto nudo. Micidiale. Mi alzavo alle 3 del mattino, alle 4 ero al lavoro. Andavo avanti fino alle 5 del pomeriggio, facevo i doppi, i tripli turni. Lavoravo il sabato, la domenica. Cercavo di stare lontano dalla strada. Non volevo tempi morti. Dormivo nell’ora che l’autobus impiegava a portarmi dal lavoro alla palestra.
Con Oliva al fianco il 26 maggio 1998 ho vinto a Minsk l’europeo dilettanti. Ho battuto un bielorusso a casa sua e davanti al suo presidente della Repubblica.
Preso l’oro ho chiamato casa.
“Sono campione d’Europa”.
Mamma e Tazzi si sono commossi, sono scoppiati a piangere tutti e due.
Mamma ha parlato con Ottavio.
“Stagli sempre dietro. Mio figlio è buono e coglione”.
Piangevano”.
Questo ho raccontato in “Non fare il furbo, combatti” (Absolutely Free editore). Ma per chiudere questo ricordo credo sia indispensabile aggiungere le parole che Giaco ha detto a Flavio Dell’Amore, un mio grande amico, un valido giornalista, il giorno in cui Ottavio è morto. “Lui ordinava e io eseguivo. Mi ha insegnato tutto quello che so. A volte mi stupivo di quanta gente lo rispettasse in modo evidente e sincero, se lo meritava. E’ stato un maestro di pugilato superbo, il migliore che la Doria abbia mai avuto. Ha iniziato ad aver dei problemi fisici nel 1998 quando gli tolsero la palestra. Tornavo da Minsk dopo aver vinto il titolo europeo dei massimi tra i dilettanti. Ero felice. L’avevo trovato proprio lì, in via Mascagni. La palestra era in ristrutturazione. Lui si era congratulato con me, ma aveva gli occhi lucidi e guardando i lavori mi aveva detto con profonda tristezza: “Vedi , basta un giorno per distruggere cinquant’anni di lavoro”. Secondo me in quel momento qualcosa gli è morto dentro e lo ha piano piano corroso. Non lo dimenticherò mai. Sono certo che lui, da dove è ora, continuerà a seguirmi. Ciao Ottavio.” Anche il nonno se ne è andato.
Nella città pentra si combattevano in segreto match spietati, nei quali si rischiava addirittura la vita. Lo rivela l’ex pugile partenopeo, oggi attore, ai microfoni di Lucignolo 2.0
ISERNIA. Napoli, Roma, Caserta. E Isernia. Anche il capoluogo pentro è stato teatro di incontri clandestini di boxe. A raccontare quanto accadeva in alcune contrade della città, ai microfoni della trasmissione televisiva Lucignolo 2.0 andata in onda domenica notte su Italia Uno, è Salvatore Ruocco. Ex pugile, ormai attore a tempo pieno, tant’è che è approdato di recente anche sul red carpet del Roma film festival, Ruocco ha svelato che a Isernia esisteva un giro di combattimenti violenti e di scommesse, nel quale ogni incontro poteva costare la vita. “Rischiavi la vita, non di farti male”, precisa l'ex pugile. Gli incontri si svolgevano nelle campagne, nei garage precisamente, lontano da occhi indiscreti. “C’erano poche persone. Gli scommettitori a cui piaceva vedere sangue. Le sentinelle che controllavano se arrivava la polizia e, nel caso, fingevano che era in corso un allenamento. E poi c’eravamo noi -spiega l'attore- due combattenti che si sfidavano in match spietati”. La forza per uscire dal giro, Ruocco, l’ha trovata dopo l’ultimo combattimento: “Mi volevano vedere morto -ricorda l'attore partenopeo- e quando ho capito che troppe persone mangiavano sulla mia vita, ho deciso di smettere”. Sapere che questa sorta di Fight club, ossia circoli di combattimento clandestino come quello nato nell’omonimo film del 1999, possano spuntare anche in realtà dalle dimensioni modeste come Isernia, probabilmente, avrà sconcertato i più. La notizia, infatti, stride alquanto con l’immagine di cittadina serena e tranquilla con la quale solitamente si connota il capoluogo pentro.