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venerdì 9 agosto 2013

Francesca Ruocco: «Il lavoro precario in Università»


Eloisa Betti | 12 febbraio 2012 | Comments (2)
Francesca Ruocco del Coordinamento nazionale precari Flc Cgil, intervistata da Eloisa Betti, delinea un quadro molto preoccupante sulla crescita del lavoro precario all’Università nelle sue diverse forme

Come descriveresti il precariato nel settore della ricerca e, in particolare, in Università? Ritieni presenti delle caratteristiche peculiari rispetto agli altri settori?
Il precariato in Università presenta sicuramente tre caratteristiche peculiari rispetto al mondo del precariato nel suo complesso. La prima è che fino ad oggi, poi con la riforma qualcosa cambierà, il precariato universitario non è caratterizzato dal contratto a tempo determinato, ma dai vari assegni di ricerca, dai contratti di insegnamento, inquadrati come contratti di collaborazione, da quelli di tutorato, spesso vere e proprie prestazioni occasionali, e dalle borse di ricerca: tutti contratti senza nessun diritto esenza nessun ammortizzatore sociale in quanto non danno accesso neanche all’indennità di disoccupazione.
La seconda caratteristica è che il precariato nell’Università è effettivamente invisibile perché, rispetto al precariato nella scuola o altre forme di precariato nel settore della conoscenza, il precariato dell’università non è inquadrato in una graduatoria e, in alcuni casi, il ricercatore precario non risulta nemmeno all’interno dei portali di Ateneo, quindi nemmeno lo studente si rende conto se davanti a lui, in aula o a ricevimento, ha un docente strutturato oppure un ricercatore a tempo determinato, un’assegnista di ricerca, un contrattista o addirittura un dottorando.
La terza caratteristica che contraddistingue il precariato universitario è l’elemento fortissimo dell’auto-sfruttamento. La grande differenza tra chi è precario nell’Università rispetto a chi lo è nei settori dell’industria o dei servizi, dove pur altissimo è il precariato, è che all’Università una persona fa quello che gli piace, svolge la propria ricerca e/o insegna le cose che gli interessano e gli piacciono. Quindi altissimo è l’elemento dell’auto-sfruttamento che si traduce nel dirsi: “faccio quello che mi piace e quindi posso farlo anche gratis, anche se vengo pagato pochissimo ho la possibilità di fare quello che mi interessa e di sviluppare la mia ricerca”, con la speranza ovviamente, continuando ad accumulare titoli e pubblicazioni, un domani di entrare nella favolosa carriera accademica.

Ritieni che il fenomeno del lavoro precario nell’Università italiana abbia carattere strutturale? Qual è l’impatto della Riforma Gelmini, e in particolare del taglio dei fondi, sui ricercatori?

Il precariato in Università è sempre stato, anche giustamente fino ad un certo punto, strutturale; anche negli anni Cinquanta, quando non si poteva parlare propriamente di precariato universitario, era normale che dopo la laurea si facesse l’assistente di un docente e si iniziasse a pubblicare e poi magari si intraprendesse la carriera accademica. Fino agli anni Ottanta in realtà era normale intraprendere la carriera accademica anche lavorando contemporaneamente all’esterno, ma continuando a svolgere attività di ricerca all’Università fino a quando c’era la possibilità di ottenere un posizione strutturata attraverso un concorso. Negli ultimi anni c’è stata questa degenerazione per cui il precariato universitario non solo è diventato strutturale, ma in maniera sempre più preponderante regge effettivamente un pezzo di Università. L’anno scorso con le mobilitazione contro la Gelmini ci siamo per esempio resi conto che l’Università italiana, a partire dalla didattica, si regge sui ricercatori che insegnano in modo volontario anche se per status giuridico l’unico obbligo che hanno è il lavoro di ricerca. Oltre a questo, più della metà della didattica restante è affidata ai precari, senza considerare la ricerca che si regge su una molteplicità di figure precarie. Da ora in avanti sarà forse un po’ diverso, nel senso che l’obiettivo dei tagli messi in atto dalla riforma Gelmini è anche ridurre drasticamente l’Università, sia come personale docente e personale ricercatore sia come offerta formativa e studenti. Motivo per il quale il problema del precariato diminuirà, perché ci saranno delle grosse espulsioni che in parte sono già iniziate. La cosa drammatica è che si tratta di persone molte delle quali in età avanzata, perché l’età media a cui si diventava ricercatore a tempo indeterminato era di 40-45 anni. Nella situazione attuale di crisi e avendo già raggiunto una certa età anagrafica, tra i 35 e i 40 anni, i ricercatori che verranno espulsi faranno molta fatica a ricollocarsi.

Sulla base dei dati che avete a disposizione come FLC, quali sono le dimensioni del precariato in Università? Quale la situazione all’Università di Bologna?

Negli ultimi anni il precariato universitario è cresciuto in maniera esponenziale. È faticoso stimare i precari proprio per quel che dicevo prima, per il loro carattere invisibile e perché vi sono moltissime figure diverse: assegnisti di ricerca, contrattisti per un modulo di insegnamento o un’intero corso, contratti di tutorato e perfino chi, senza contratto, continua a lavorare all’interno dell’Università tra un contratto e l’altro ecc… Dalle ultime stime, nel 2010 i precari nell’Università italiana erano ben 126.188 (di cui, in particolare, 41.349 docenti a contratto, 24.934 specializzandi in medicina, 23.996 tutor e 17.942 assegnisti di ricerca), nonostante fossero già 22.000 in meno rispetto al 2008. A Bologna su nostra richiesta abbiamo avuto i dati del 2011: ci sono 1064 assegni di ricerca, quindi assegnisti; 130 contratti di ricerca; 4 ricercatori a tempo determinato del tipo Moratti; 607 contratti di docenza; 236 moduli didattici, 717 contratti di tutorato attivati dalla facoltà e 242 contratti di tutorato attivati dai dipartimenti e dai poli per un totale di oltre 900 contratti di tutorato. Abbiamo stimato che all’Università di Bologna ci sono circa 3.000 precari a fronte di circa 3000 docenti e ricercatori strutturati, per cui la metà.

Nella tua esperienza, che impatto ha avuto la Riforma Gelmini sulle varie figure di ricercatori precari, sulle loro aspettative, sulle possibilità di ingresso e stabilizzazione?
In questi anni, con il taglio delle risorse e il blocco dei concorsi, ovviamente il problema dei ricercatori precari si è aggravato sempre di più anche quantitativamente e adesso siamo in una situazione obiettivamente di stallo. Con l’entrata in vigore della Legge Gelmini il vecchio sistema è stato superato e non ci sono stati più contratti di ricercatore a tempo indeterminato dopo il 2010. Tuttavia, mancando i decreti attuativi della stessa legge Gelmini non è ancora partito il nuovo reclutamento. Di fatto sono partiti solo i concorsi a tempo determinato di tipo A, che prevedono 3 anni, rinnovabili una volta sola per altri 2, ma non fanno entrare nella vera e propria tenure track, alla quale si può accedere solo con i concorsi a tempo determinato di tipo B e l’abilitazione scientifica nazionale. Solo questi ultimi infatti danno la possibilità di accedere alla tenure track e quindi diventare professore associato. Quindi tutto è bloccato e si sta continuando a incrementare la massa del precariato universitario; obiettivamente io credo che tra giugno e settembre ci sarà un’altra ondata consistente di espulsioni, perché i tagli sono rimasti e tutto è bloccato. Anche una buona parte di persone qualificate verrà in ogni caso espulsa, perché ormai l’imbuto è troppo largo sul fondo ed è troppo stretto alla base. Ad esempio tra le Università in condizioni migliori rispetto al bilancio a livello nazionale ci sono i politecnici e l’Università di Bologna; Bologna è una delle università che bandisce più assegni di ricerca e più posti di ricercatore a tempo determinato: nel 2011 sono stati banditi circa 80 posti di ricercatore a tempo determinato di tipo A di cui solo 10 su fondi interni e gli altri su fondi esterni, come fondi europei, fondi provenienti da bandi o messi a disposizione da aziende e partner privati, quindi principalmente in aree scientifiche. L’anno prossimo saranno banditi altri 80 posti circa, di cui si spera su fondi interni circa 30. Se noi pensiamo 80 tempi determinati all’anno, di cui pochissimi su fondi interni, a fronte di 1064 assegni di ricerca, oltre 900 contratti di tutorato, 740 contratti di docenza, possiamo dire che il numero di aspiranti è assolutamente spropositato.

Qual è di fatto la differenza tra questa nuova figura del ricercatore a tempo determinato e quella vecchia di ricercatore a tempo indeterminato, quali le modalità di accesso? Quali richieste del sindacato?
La differenza è sostanzialmente questa: prima dopo anni di assegni e contratti un ricercatore precario faceva un concorso e se lo vinceva diventava stabile con la qualifica di ricercatore a tempo indeterminato. Adesso si fa ugualmente un concorso ottenendo, nel caso si vinca, la qualifica di ricercatore ma un contratto a termine, quindi sempre precario.
Come sindacato, come FLC-CGIL, chiediamo che ci sia un’unica figura pre-ruolo come in altri paesi europei e quindi che dopo il dottorato ci sia un unico contratto a tempo determinato di tre anni (per didattica e/o ricerca) dopo il quale, previa valutazione e anche attraverso un’abilitazione nazionale come quella che è stata studiata oggi che prevede la valutazione di titoli e pubblicazioni, si possa entrare nella carriera accademica vera e propria in modo stabile. Nel caso la valutazione sia negativa a quel punto il potenziale ricercatore verrebbe espulso a 30-33 anni non a 40 o oltre. Con un’unica forma contrattuale, assimilabile al tempo determinato, si garantirebbero più tutele ai ricercatori che, ad esempio, con gli assegni di ricerca attuali rinnovabili fino a 4 anni e cumulabili con altre forme contrattuali (docenze a contratto, tutorati) fino a 12 anni anche non continuativi di contratti precari. Non va dimenticato che i nuovi ricercatori a tempo determinato di tipo A, possono vedersi rinnovato il contratto una volta sola per altri due anni e per un totale di cinque anni. Dopo questi 3-5 anni un ricercatore può essere tranquillamente lasciato a casa una volta finito il tempo determinato di tipo A. Per entrare nella vera e propriatenure tack deve fare un altro concorso e vincere un tempo determinato di tipo B, riservato solo a quelli che hanno già avuto il tempo determinato di tipo A. A quel punto se si consegue l’abilitazione scientifica nazionale e si viene valutati positivamente entro il terzo anno l’università dovrebbe stabilizzarti come professore associato. Quindi se tutto va bene passano come minimo una decina di anni dall’inizio del dottorato prima di diventare professore associato e quindi stabile, ma nel caso che una persona faccia un percorso perfetto e senza interruzioni cosa impossibile. Realisticamente sommando dottorato di ricerca, qualche anno di assegno o contratti, il tempo determinato di tipo A e quello B è difficile scendere sotto i 12 anni di contratti precari. La cosa peggiore è che ad ogni passaggio uno può essere tranquillamente parcheggiato. Ecco quello che dicevo prima quando parlavo dell’invisibilità: a differenza dei precari scuola in cui c’è una graduatoria, c’è un punteggio, tu puoi aver fatto anche 10 anni di lavoro all’interno di Università tra assegni, contratti da ricercatore a tempo determinato ed essere lasciato a casa con la motivazione classica avremmo bisogno di lei, ma purtroppo le risorse…

Nella situazione che stai descrivendo che ruolo ha il cosiddetto “merito”, uno dei concetti cardine della Riforma Gelmini?
Sul discorso del merito sarebbe opportuno discutere in maniera più approfondita anche coinvolgendo tutte le parti in causa, partendo dai criteri di valutazione. Detto questo, anche si raggiungessero i migliori criteri di valutazione possibili, il problema vero è che un sistema veramente meritocratico funziona se vi è un’adeguata quantità di risorse. In una situazione come quella dell’Università italiana, in cui c’era già un problema di rapporti clientelari, feudali addirittura, nel momento in cui c’è scarsità di risorse è chiaro che va avanti chi deve essere salvato a tutti i costi perché è il discepolo di quel barone lì piuttosto che perché è figlio di quell’altro là. Oggi siamo veramente di fronte ad una situazione del “si salvi chi può”. Per cui con gli ultimi concorsi a ricercatore a tempo indeterminato è accaduto che sul sito “Indovina il ricercatore”, nel quale si votava per i concorsi in tutt’Italia e i risultati venivano resi pubblici solo al termine del concorso, sono stati indovinati al 99% tutti i vincitori, quindi vuol dire che in tutt’Italia al 99% si sapeva per ogni concorso chi avrebbe dovuto vincere. Tant’è che noi come Rete dei ricercatori precari di Bologna abbiamo detto esplicitamente che in questa situazione sarebbe più logico, e darebbe anche più garanzie al singolo, il meccanismo anglosassone o tedesco della chiamata diretta con valutazione ex post del neo assunto. È inutile continuare a mettere la foglia di fico del concorso, sarebbe meglio responsabilizzare il singolo docente nei confronti del precario: a quel punto se il docente chiama a lavorare con sé il giovane ricercatore si prende la responsabilità della sua iniziativa e non si può più nascondere dietro il fatto che c’è stato un concorso; dunque, qualora la valutazione ex post della produzione scientifica del neo assunto sia negativa, ciò andrebbe a ricadere anche sui fondi di ricerca e gli scatti stipendiali del docente chiamante. A questo punto sarebbe molto più trasparente e molto più basato sul merito il metodo della chiamata diretta, rispetto a quello tutt’ora vigente del concorso locale. Noi adesso siamo in una situazione in cui la Gelmini, rispetto ai cosiddetti criteri di merito, ha lasciato il concorso locale anzi adesso sono tutti i membri sono locali per diventare ricercatore a tempo determinato. Per diventare professore associato c’è l’abilitazione scientifica nazionale, però quest’ultima sancisce solo che il ricercatore a tempo determinato seniorsarebbe abilitato a fare il professore associato, sono poi le singole università, e quindi commissioni locali, a bandire i concorsi per il ruolo di professore associato. Tra l’altro con questa follia, per cui stiamo facendo ricorso, che l’abilitazione scade dopo quattro anni, essendo fatta solo per titoli e pubblicazioni è matematicamente impossibile che dopo quattro anni si perdano i requisiti riconosciuti quattro anni prima, anche se uno non avesse più fatto niente. Quindi, in base alla riforma, saranno di fatto i dipartimenti, nel rispetto dei parametri di legge e quindi dei punti budget e dei punti personali per cui il 50% dei nuovi assunti devono essere ricercatori, a gestire il reclutamento. Detto questo sarà ogni dipartimento a decidere al suo interno a quali aree, discipline e quindi docenti attribuire le risorse per il reclutamento. Per cui funzionerà come ha funzionato finora, ossia le decisioni verranno prese a livello di Consiglio di dipartimento, a seconda dei rapporti di forza tra i singoli docenti; in pratica per i posti da ricercatore a tempo determinato funzionerà come ha funzionato finora per gli assegni di ricerca.

Rispetto allo stato dell’Università italiana che tu hai descritto qual’è il ruolo dei dottorati di ricerca, ha senso continuare a investirvi in tempi di scarsità di risorse? Quale possibile collocazione dei dottori di ricerca al termine del loro percorso, qual è la loro percezione soggettiva del futuro?
Innanzitutto, va detto che nuove ondate di persone continuano ogni anno a finire il dottorato, ma negli ultimi tre anni è cambiata radicalmente la percezione del dottorato di ricerca da parte dei dottorandi, per cui molti hanno già l’idea di andare altrove e di non restare all’interno dell’università.
Secondo me, ovviamente ha senso investire perché adesso il dottorato di ricerca è il più alto livello della formazione e quindi ha senso investire sul dottorato di ricerca. In quest’ottica bisogna rendenderlo più accessibile, come per esempio in Francia, perché se è l’ultimo livello della formazione è giusto che se il candidato si presenta con un buon progetto che riscontra l’interesse di un docente venga accettato.
Il problema principale rispetto ai dottorati di ricerca è che manca in questo Paese un investimento sulla ricerca e sull’innovazione e, più in generale, politiche industriali e produttive vere e proprie. Per investire nel dottorato parallelamente bisognerebbe investire nell’Università, nella ricerca pubblica e in ricerca e innovazione. Attualmente il nostro sistema produttivo non è in grado di assorbire il livello di know-how che esce dall’Università. Molto spesso i dottori di ricerca che si collocano sul mercato si trovano nella situazione in cui vengono declassati al livello dei laureati e penalizzati in quanto ovviamente più vecchi di questi ultimi: il mercato non capisce il valore aggiunto del dottorato e spesso i dottori di ricerca vengono ritenuti troppo formati e quindi con aspettative troppo elevate. Molti si sentono dire “di fronte a questo curriculum non abbiamo da offrirti nulla”. Con una battuta si potrebbe dire che il problema è che in questo Paese si producono SUV e non IPAD, noi abbiamo la bilancia commerciale in passivo su tutti i prodotti ad alto contenuto tecnologico. Noi ci collochiamo esattamente a metà strada tra i paesi emergenti e le economie avanzate: non possiamo competere con altri paesi emergenti per quanto riguarda il taglio del costo del lavoro e di diritti, ma non riusciamo a competere neanche con le economie avanzate sulla qualità e sull’innovazione.

Quali sono i livelli di sindacalizzazione dei ricercatori precari e quali i problemi che il sindacato di cui fai parte, la FLC, deve affrontare nel relazionarsi con i ricercatori precari?
Prima di tutto va detto che la Cgil in generale ha un ritardo mostruoso sul tema del precariato, nel senso che fino a 15 anni fa la Cgil ha considerato la condizione precaria una condizione transitoria nel mercato del lavoro, poi ci si è via via resi conto che è diventata una condizione strutturale del nuovo mercato del lavoro. La FLC ha iniziato a tentare di organizzare i precari, tant’è che ha messo tra gli organismi statutari il coordinamento precari della conoscenza sia nazionale che con i collegamenti locali. Detto questo per quanto riguarda il settore della conoscenza è molto difficile organizzare i precari; è più semplice negli enti di ricerca rispetto all’Università, infatti, negli enti di ricerca ci si è riusciti molto meglio e si sono ottenuti risultati importanti durante il governo Prodi. Vi sono state stabilizzazioni significative, benché purtroppo non di tutti bisognava avere il requisito del contratto a tempo determinato da 3 anni. Ora, comunque, ci sono enti di ricerca come l’ENEA del Brasimone dove non ci sono più ricercatori precari. Va detto che negli enti di ricerca è più facile organizzare i precari, perché l’ente funziona in maniera più simile al modello della grande fabbrica fordista: tutti lavorano nello stesso luogo e quindi sono tutti insieme, hanno un orario di lavoro preciso, si riconoscono come lavoratori, hanno occasione di parlarsi e di organizzarsi, hanno tutti un unico datore di lavoro. Quelli più difficili da organizzare sono quelli dell’Università perché sono tutti in posti diversi e dipendono tutti comunque dal singolo dipartimento, dal singolo docente, dal singolo gruppo di ricerca. Per le discipline umanistiche non ne parliamo, perché nelle aree scientifiche alcuni sono nei laboratori, ma nelle umanistiche ognuno fa ricerca in casa, in biblioteca, ogni tanto passano dal docente però sono assolutamente polverizzati. Per di più si percepiscono meno di quelli dei settori scientifici come lavoratori veri e propri, si percepiscono sempre comunque loro stessi in questa terra di mezzo tra lavoro e formazione. C’è quindi anche un problema di mentalità, si percepiscono poco come lavoratori per cui partecipano poco e si fa fatica a intercettarli.
Un’altra questione da sottolineare è il problema di fare coalizione tra precari. È vero che vi sono alcune esigenze e bisogni comuni legati banalmente alla cittadinanza ridotta, dal momento che se sei precario che non puoi accedere all’abitazione come gli altri, non ti fanno prestito ecc… Per queste ragioni, vi sono una serie di bisogni dei precari dell’Università che sono più simili a quelli di un precario della cultura o dello spettacolo, che a quelli di un docente strutturato dell’Università. Questi lavoratori precari tuttavia si sentono più legati al proprio settore di lavoro piuttosto che agli altri precari di ambiti simili. Per creare una soggettività collettiva c’è bisogno di costruire non solo un immaginario comune, ma anche di costruire una mobilitazione in maniera trasversale e rivendicazioni trasversali. Questa cosa non si riesce mai a fare, se non in misura ridottissima. I precari quando si mobilitano lo fanno all’interno del loro settore di lavoro, i precari delll’Università le rare volte che si mobilitano lo fanno con i docenti e con gli studenti; si fa fatica costruire un ponte comune addirittura tra i precari dell’Università, i precari della scuole e i precari degli enti di ricerca.

Che giudizio dai delle recenti mobilitazioni auto-organizzate dei lavoratori precari, come la manifestazione del 9 aprile e l’assemblea nazionale “Liberiamoci dalla precarietà” del 19-20 novembre 2011 lanciata dalla rete “Il nostro tempo è adesso”?
Queste iniziative sono state promosse da “i giovani non più disposti a tutto” della CGIL, le giovanili dei partiti di centrosinistra e molti tra i coordinamenti di precari auto organizzati esistenti (redattori, giornalisti, archeologi). Da notare che quelle poche esperienze di precari organizzati appartengono quasi tutti ai settori del precariato cognitivo, della comunicazione, dello spettacolo: archeologi, giornalisti, attori, ricercatori. Invece, in settori come il commercio dove il precariato è enorme i precari non sono organizzati in quanto tali e quando si organizzano lo fanno come lavoratori dentro le loro categorie lavorative. Quel che è positivo di quelle mobilitazioni è stato proprio il tentativo di avere una presa di parola da parte di una generazione precaria, che non è precaria solo dal punto di vista lavorativo ma oggi più che mai sperimenta una precarietà di vita, una precarietà esistenziale. Oggi questa generazione non ha veramente più accesso al futuro, nel senso che non ha più accesso nemmeno al lavoro. Se la generazione dei trentenni è la generazione mille euro, quella dei ventenni non a caso viene definita la generazione senza futuro. L’Università oggi è in una situazione bloccata e la situazione è ancora più drammatica negli enti di formazione: in tutti i posti che sto seguendo quando riusciamo a far stabilizzare i trentenni, trentacinquenni, a quel punto si crea un tappo ancora maggiore e ti chiedi se il sistema non riparte tutti quelli nuovi cosa faranno? Torneremo ad essere un Paese di emigrazione in maniera massiccia?

Quali sperimentazioni avete messo in atto per fronteggiare il problema del precariato all’Università di Bologna e le difficoltà di sindacalizzazione tradizionale? Quali sono gli aspetti principali su cui vi state concentrando?
A Bologna, adesso abbiamo una mailing list: 250 persone sono iscritte alla mailing list, 40 alla FLC, però i militanti sono una ventina a fronte di 250 potenziali e circa 2000 precari strutturali dell’Università di Bologna. Va detto che per di più i ricercatori precari non hanno diritti sindacali, diritti che si applicano solo ai lavoratori subordinati a tempo determinato. Per questa motivazione, ad esempio, il tavolo che noi abbiamo aperto con l’Università di Bologna, e che al momento siamo riusciti ad aprire in pochi posti in Italia (Università di Bologna, Pisa, Ferrara e Torino più il Politecnico di Torino), viene considerato solo un tavolo di confronto e non un vero e proprio tavolo sindacale: noi non abbiamo firmato un accordo ma le cose che abbiamo ottenuto l’Università le ha messe nel regolamento unilateralmente. Va detto che ci abbiamo messo un po’ per ottenere questo tavolo di confronto, proprio per quel che dicevo prima: l’Università non ti riconosce come un soggetto portatore di diritti sindacali perché il contratto non lo prevede. Sono disposti a confrontarsi in un vero e proprio tavolo sindacale solo con i contrattualizzati, quindi i tecnici amministrativi. Anche gli stessi docenti volevano un confronto con l’Università tramite il sindacato sui criteri di valutazione, ma l’Università su questo fa muro perché tutti i soggetti che non hanno contratto collettivo per loro non sono materia di contrattazione sindacale. Abbiamo ottenuto il tavolo di confronto dopo diverse iniziative e dopo che abbiamo fatto un blitz al rettorato in cui abbiamo detto: “non ce ne andiamo finché non ci date una data e un’ora” e così l’abbiamo ottenuto. Le materie su cui ci siamo concentrati sono: la situazione dell’Università dal punto di vista economico-finanziario e il reclutamento per sapere banalmente le cifre di previsione per il reclutamento rispetto alla situazione dei punti base e dei punti personale dell’Università. Questa è la condizione per costruire una consapevolezza all’interno del precariato universitario di quali sono le prospettive reali: l’Università non aveva mai elaborato prima della nostra richiesta i dati di quanti assegni di ricerca, di quanti contratti ecc…mentre adesso invece si tiene monitorata la situazione. Un altro tema di discussione sono stati i regolamenti su assegni di ricerca e contratti di insegnamento e tutorato. Finora si sono ottenute alcune cose dalla maternità più vantaggiosa dei nuovi assegni estesa anche ai vecchi(non più 80% dell’assegno ma 100% di cui il 20% messo dall’università), alla possibilità di rinnovare i vecchi assegni, cosa messa in discussione dopo il varo della legge Gelmini: secondo l’Università di Bologna i vecchi assegni non potevano essere rinnovati anche per chi l’aveva appena preso di un anno rinnovabile per un altro e abbiamo ottenuto in extremis di cambiare il regolamento. Per le docenze a contratto abbiamo stabilito che non possono essere pagati meno di € 60 l’ora di lordo ente. Per i ricercatori a tempo determinato di tipo A, la legge prevede che possano fare fino a 150 ore di didattica frontale, noi invece abbiamo fatto includere nel regolamento che ne possono fare al massimo 60 e anche 0. Per i ricercatori a tempo determinato di tipo B, per cui la legge prevede possano fare fino a 350 ore di didattica, abbiamo insieme stabilito ne debbano fare solo 60. Abbiamo cercato di aprire anche un confronto con la regione, abbiamo fatto in incontro con l’assessore Bianchi sulla questione del welfare per estendere una serie di servizi indiretti per i precari come agevolazioni sui trasporti, sulla fruizioni di prodotti culturali per poi pensare ad aspetti di welfare diretto come forme di reddito minimo garantito a livello regionale. Più in generale, ora si tratta di ridefinire le priorità sicuramente su risorse e reclutamento e stiamo elaborando una proposta da portare al nuovo ministro.

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